everybody's got to learn sometime

Sembra una croce ma i pezzi possono ingannare, se non sembra una croce i pezzi ce li metto io che ne ho in abbondanza. La strada, i relitti, i testimoni di qualcosa che un tempo ebbe un significato e uno scopo mi fanno paura, ci vedo in mezzo attori ignari e comparse spaesate e su tutti la mia ossessione: i gatti randagi. Il simbolo della mia vita. Io non sono un gatto, io sono tutti i gatti del mondo, con la loro contraddizione tragica fatta di indipendenza e capacità di legarsi. Fortissimi e indifesi nel momento in cui scelgono di affezionarsi.

Attaccarsi al prossimo elemento della catena per sentirsi più forte è comprensibile, umano, assecondabile. Per non rendersi vulnerabili basta corazzarsi. I gatti della mia vita sono tutti qui, tutti dentro, soprattutto quelli che si sono ammalati, che sono stati investiti, che non hanno resistito a un virus neonatale, che hanno lottato troppo con i gatti rivali, fino alla morte. I miei gatti sono la mappa dei miei dolori e il tragitto costellato di amori favolosi, passioni travolgenti e unioni speciali e irripetibili non ne lenisce le ferite.

Prima o poi riemerge il sogno con i gatti. La notte dei rimorsi e dei sensi di colpa. I gatti siamo noi, siamo stati noi da piccoli quando nessuno ha saputo difenderci, ma quando i gatti tornano di notte a dirmi qualcosa, io torno a quell'età anche se mi garantiva l'assenza di responsabilità, perché vivo l'obbligo di proteggerli come fosse mio, non come quello di cui avrei dovuto essere oggetto. Una culla è sempre vuota.

Alla fine ora sappiamo tutti chi ha sbagliato e in che modo, ma non serve a sentirsi meglio. Se il modo di amare è questo, non ci si può fare niente. È meno amore? È amore minore perché indebolito dagli errori umani? Ma perché, esiste forse amore perfetto e non umano?

Non sono nessuno di speciale per pretendere un modo migliore perfetto (dis)umano di essere amata. Quello che ho, quello che ho è tutto quello che è sufficiente. Il mare. Il vento caldo. Il sole quando comincia a pizzicare la pelle. Il colore nero che scalda più velocemente. I gatti che guardano e strizzano gli occhi. Il contatto di una mano. Il calore della pelle in una notte che non può essere altro che gelida. Tutte le note e tutta la musica che possono creare. Il sale, l'acqua, anche quando il primo è disciolto naturalmente nella seconda.

Devo dirla, devo spiegarla bene. I gatti sono il simbolo della mia intera vita. I gatti sono l'obiettivo sfasato, l'oggetto di una figura retorica che sposta l'attenzione sul destinatario sbagliato, per nascondere i reali rapporti e le giuste connessioni. I gatti rappresentano tutto: destinatari e mittenti di affetto, oggetto di cure a volte maldestre, in casi estremi disastrate, molto spesso assenti. I gatti privati si incrociano con tutti i gatti pubblici e universali, quelli torturati in Cina che finiscono per diventare, anche quelli, una mia responsabilità (!?!), quelli non miei, quelli per strada, quelli passati, presenti e futuri. Se non dimostro di sapermi occupare di loro ammetto di non sapermi occupare degli esseri umani. Ma qual è il soggetto di questo pensiero? Io? Se sono gatto, sono anche l'oggetto.

L'allontanamento dal tracciato percorso più volte in assoluto è esercizio faticoso ma necessario. (il gatto è solo gatto e non simbolo). La distanza dalla routine opera un reset, una pulizia non più sommaria e di sopravvivenza ma radicale, di quelle che si fanno una volta all'anno, anche nei più reconditi angoli di casa. (riconoscere tutte le responsabilità e tutti gli attori della storia è formativo se serve a chiudere un capitolo, non ad aprire quello delle colpe). La barca che si stacca dalla riva ha gli strumenti per vedere più cose e apprezzare meglio le poche cose rimaste a bordo. (dopo aver tanto parlato, assaporiamo il silenzio e facciamone buon uso)

Quali sono i valori rimasti? Gli insegnamenti? Le cose importanti, le cose da salvare, i punti da cui partire. Utilizzare la tante volte maledetta sensibilità per scrivere un nuovo modo, una nuova traccia, l'invenzione che crei musica del vecchio salvandone il nucleo e perdonando il bisogno di personare, perché dopo e oltre l'accettazione c'è un nuovo vuoto, un mondo in cui nemmeno le cose che facciamo determinano quello che siamo, un livello in cui il nostro passato non ci descrive e niente afferma quel che siamo se non il modo in cui stringiamo il presente tra le dita.

I won't let you fall apart. Ma non si è ancora esaurito il flusso, devo ancora imparare a chiudere. Per chiudere devo raccogliere. Non importa più che gli appunti agganciati alle immagini siano assolutamente incomprensibili, è esercizio di riappropriazione di emozioni, sentimenti, pensieri. L'aria che passa nella gola e diventa nota. L'istruzione che attraversa come scarica elettrica il muscolo e mette in moto l'auto. L'acqua che scende e tocca la gola in tutti i suoi punti. Il batticuore dei duecento chilometri orari che diventano quattrocento e si inclinano.

L'unico modo per essere me e ritrovare me è non bloccare alcuna energia, non filtrare nessuno dei movimenti che sento voler prendere una via d'uscita per diventare pensiero, azione, emozione, osservazione. Usare quello strumento per essere chi sono. Non c'è altro: non c'è modo di cantare, parlare, fare fotografie, descrivere il mondo che mi garantisca la presenza di una vera identità. Infilare come dita nell'erba le mie antenne nello spazio che mi circonda e dire, dire qualcosa, dire una cosa anche se non ha ancora la forma giusta. Parcheggiare, riprendere, capire.

Per esempio stasera penso ai libri che ho accanto e che non comincio e a lei che mi spronava a leggere e mi manca. Dovrei ringraziarti per tutti i libri che mi hai consigliato e che prima o poi sono riuscita a finire e anche per quelli che ancora non ho finito e perfino per quelli che non ho ancora cominciato. Potrei ringraziarti per quei pochi soldi che rappresentavano la mia prima possibilità di sentirmi utile e mettere da parte qualcosa di mio. Vorrei anche ringraziarti per le battute sugli autori dei libri, sugli attori dei film, sui personaggi della storia, delle storie, delle tue storie, per le cose appuntate da dirmi anche se poi te le sei dimenticate, per la soluzione di un'equazione su dieci, anche se magari forse ne avrò sbagliate otto, per il panorama dalla tua camera, i libri distrutti, tutti gli oggetti con le loro vite e storie sepolte. Non saprei ringraziarti in altro modo, quindi non lo faccio, posso solo inventare quel che non mi hai detto mai.

Voglio smetterla con i sensi di colpa, abolisco da ora in poi qualsiasi colpa, responsabilità, identificazione. Sgancio un grazie, non sto omettendo nulla. Ci sono altri segmenti che si ricomporranno. Voglio appropriarmi del mio desiderio. Di fare, di esserci, di esprimere. Voglio tutto ciò che ho e che mi spetta, voglio immaginare ogni emozione, sensazione, sentimento che non mi appartiene e che non ho ancora sperimentato, voglio sapere cosa si prova ad avere le ali e sentirci il vento dentro e attorno, voglio che tutta la mia capacità di provare amore non si esaurisca mai ma si alimenti da sola una volta lanciata nel vuoto.