mezcla

Foto con testo, testo con musica, musica con movimento, movimento con foto. Uno agganciato a due inventa tre, mescolando, meravigliando, azzardando e sperimentando. Chi non fonde è fermo, chi rimane solo non avanza, non genera, non esplode e non prosegue. Il cemento è unico e immobile e nessuna radice nasce dal cemento, se non lo rompe fino a raggiungere il terreno. La radice con il terreno diventa una pianta che cerca il sole, uno stato che cerca un altro stato, una stasi che cerca di diventare movimento.

Mi terrorizzano le unità che si accostano senza sommarsi, mi terrorizza essere un'unità immobile. La sensazione di isolamento forzato o autoindotto è sempre in agguato, la prospettiva ingigantisce le cose. O le rimpicciolisce snobbandone l'importanza con sufficienza.

È l'età l'inganno a cui ci si sottopone quotidianamente? Peso per altezza diviso due, la formula da mandare a memoria per riepilogare a richiesta chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo o perché abbiamo smesso di scegliere. Se le tette, o le opinioni, rimangono egregiamente salde, forse quella sensazione di essere prossimi al fondo non è un principio di caduta, ma solo una correzione del tiro per fronteggiare un baricentro ormai basso.

Il basso, il punto più basso, non è quello che avevi pensato di toccare e di leccare anni fa, quando la disperazione e l'inerzia si fondevano in un blob magnetico e disgustoso. Non era quello, nonostante l'apparenza mostruosa. Quando la chimica di un momento sgancia dei pannelli saldamente (ri)costruiti e lì, in fondo, là sotto, c'è ancora un nodo incollato, una matassa di paura, quello è un punto ancora più basso. Tenemos droga, ma ce l'abbiamo dentro, la produciamo e ce ne inebriamo, per il nostro equilibrio incerto che crolla dietro il primo dosso e dentro il primo modesto coltello.

Continuare con gli esperimenti please. Il cibo, la compagnia, il mondo esterno. Residui di paure, paura di avere paura, sono gli elementi elevati a potenza che ancora germogliano in fondo e, semplicemente, tentano di dire qualcosa che non ho ancora capito. Le persone? I rapporti falliti? Le pretese assurde che rivolto contro me stessa? Come il fuoco l'allarme non si spegne mai, solo il fumo attira l'attenzione e lascia residui lunghi e fastidiosi. Il diario avanza ma rimane immobile, le sequenze si ripetono senza far progredire la storia.

Uscire dai posti chiusi significa anche allargare le braccia agli spazi aperti. No, non è ovvio. Le immagini geometricamente precise sono esperimento applicato alle mani, agli occhi, allo sguardo e al pensiero. Quando tra dentro e fuori non c'è materia a intralciare lo svolgimento delle cose.

"La prospettiva dal basso rende la sensazione di inferiorità di chi guarda e di superiorità di ciò che viene guardato". Quando i luoghi solitamente popolati da una frenesia di gente tornano vuoti e muti, gli oggetti e gli edifici ritornano giganti. Passando accanto ai capannoni, vorrei entrarci solo per poterne sfiorare il soffitto dall'interno, in cima a una lunghissima scala. O vorrei arrampicarmi sui tir stancamente parcheggiati nei loro box assegnati. Potrei sganciare il catenaccio di un capannone solitario, una domenica mattina, e trovarci dentro un prato luminoso perfettamente nascosto al mondo.

Dai capannoni industriali ai posti cari non più miei il passo è breve. Io lo conoscevo bene, questo cemento ingentilito dal verde squillante. Mi fermo, parcheggio, la piazzetta in cui mi giro e rigiro è in realtà il punto finale di una strada chiusa, non è forse questa sempre la spiegazione? Trovare una risposta nel punto in cui ci si ferma o tornare indietro e imboccare la parallela.

Ci vuole davvero arte per scrivere cose connesse al tema principale e contemporaneamente sensate nel loro piccolo spazio vitale. Tutto lo spazio, la luce, il buio, l'aria, la presenza di altro, tutto può convergere all'esterno e non essere più capace di rientrare all'interno. E così elementi che tenevo stretti nel pugno, convinta fossero in mio possesso, al rilascio delle dita si scoprono anonimi, ignoti, stranieri. Cosa volevo dire con questo? Perché non ho deciso di raccontarlo a me stessa a suo tempo e l'ho lasciato svanire?

Non mi sono accorta del momento in cui una data emozione ha smesso di appartenere al mio vissuto? Non me ne accorgo mai. Confido nel fatto che al toccare la corda, la nota prodotta sarà sempre la stessa. Dimentico anche che esiste il verbo scordarsi. In senso proprio e in quello popolare. E ogni maschera indossata non nasconde più nulla.

Le chiusure sono più positive delle maschere, perciò. Mettere davanti alla realtà una variante adeguata al contesto, modellarla all'esterno con le dita nel fango, modellarla premendo e scavando e grattando senza paura di esercitare troppa pressione è quello che schiaccia, cancella e scioglie piccole parti di quello che sono. Nessun dubbio che la parola ansiolitico sia la più adatta etimologicamente allo scopo. Certe patologie sono pietre che vanno sgretolate, frantumate, aggredite un pezzo dopo l'altro. Ma anche la propria struttura si può sgretolare, in assenza di aria, luce, contatto. La costruzione della maschera per il mondo toglie nutrimento a ciò che c'è dietro la maschera. E succede che smonti, deponi, rinunci, e dietro, qualcosa a cui davi il nome Io risulta ormai inaccessibile.

Guardati. Guarda come sei diventato. Guarda la tua fronte. Se fossi donna la pelle sulla tua fronte non sarebbe così secca e screpolata. Le donne ci badano, a dire il vero anche gli uomini. Tu non sei uno di loro però. Se volessi badarci, dovresti lavarti il viso più spesso, se si secca la pelle dovresti idratarla. Invece è secca come se ti fossi scottato e ti stessi spellando. Guarda i tuoi occhi. Non puoi vederli ma ti assicuro che sono stanchi. Potrebbero essere brillanti se le labbra volessero seguirli, invece sono solo lucidi. Di stanchezza, di pianto trattenuto, di febbre alla testa che non ti passa perché ancora vuoi crogiolarti nel tuo nervosismo. Hai questi occhi così belli, di un colore così particolare e non banale, che sono una calamita per gli occhi altrui. E invece li vuoi velare di questo pallore. Guarda la tua bocca. È distratta, è debole e molle. Quella bocca che ha saputo dare tanti baci e mordere e leccare la carne di tutte le persone che hai amato anche solo una notte. È una bocca senza voglia, una bocca senza voglie. Una bocca che andrebbe inumidita, per ricominciare a farla riscaldare, a farla muovere. Lo sai perché la bocca non c'è? Perché hai smesso di usarla. Guardati ancora cinque minuti, va, perché una volta passati mi sposterò dallo specchio. Non sono una maschera, io.

E non pensi invece che potrei appuntare, come avevo cominciato a fare, le cose positive, le cose che mi sono riuscite, invece dei fallimenti e dei dolori? No, non lo penso. Con i trofei non sono mai andata da nessuna parte, sono là, statici, immobili, simbolo del tempo passato. Buongiorno, le consegno un premio per aver... per essere stata... Quando sarò in grado di assegnarmi un premio per qualcosa che ancora mi appartiene, o vivo, o produco, forse la felicità avrà un segno più davanti. 

Riunire davanti agli occhi i fallimenti, gli errori, le storture, invece, è l'unica cosa che mi abbia mai spinto a reagire. O che mi abbia mai fatto tanto dolore al punto da volerlo vedere uscire. Facciamo l'elenco. Fate l'elenco. Fai questo cazzo di elenco, salvalo, conservalo, non fatti rubare gli appunti, non fare entrare il vento che butterà per aria tutti i foglietti. Raccogli e inforca il dolore, altrimenti a che altro pensi che serva?

Nel primo quadro, vedo la scomparsa del tappeto elastico. Le luci si spengono, le attività si fermano, i rumori si calmano e le persone mi lasciano. Ognuno ha una vita propria della quale non faccio parte. Non so dove poggiare i piedi, e se cadrò. Non so se in quel caso qualcuno mi aiuterà a rialzarmi. Non so se una volta in piedi sarò in grado di camminare. La notte, ora non è notte ma la mia debolezza comincia di notte, so che avrò ancora più domande e ancora meno risposte. Eccetto che di domenica, quando le assenze ancora più ingiustificate mi toglieranno anche l'istinto di formulare nuove domande.

Le domande formulate sono pericolosamente esposte. Le domande ripetute sono quelle che creavano il conflitto. Come posso smettere di odiare chi rifiuta anche di ascoltare le mie domande, non dico di rispondere. Non c'è punto di domanda, non più. È una domanda sulle domande che non ha più interlocutore. Il vento le muove come brandelli di una ferita che a ogni spostamento tirano e fanno male nel punto di pelle ancora attaccato. Ogni folata una fitta, almeno fino a quando l'aria non le strapperà via, o il sole e il tempo le sbricioleranno.

È che voglio vedere davvero come sono, davvero cosa penso. Visto che ho paura perfino di pensare, per non ferire nessuno, allora penso qua, invece che da solo, nella mia stanzetta, sotto le coperte coi piedi freddi.
Volete costringermi ad espormi? Facendomi parlare di libri che non conosco, eventi storici che non ho studiato, personaggi politici su cui non ho avuto il tempo di farmi un'opinione? Fatelo, ma non mi giudicate quando poi farò la mia parte. Quando me ne uscirò con una battuta volgare o pecoreccia e subito penserete 'in fondo lo sapevo che era un cafone' - 'no, dai, non è un cafone, solo un po' cafone a volte'. Volete darmi la caccia per qualche parola fuori luogo? Va bene. Sono abituato a essere solo. Ormai è una costante. Perché gli altri dovrebbero rivolgermi la parola, quando col mio comportamento faccio di tutto per dissuaderli? Perché dovrebbero essere interessati a me, quando non lo sono nemmeno io?

Mi raccogli per favore? So che sembro solo un pezzo, ma ti assicuro che io sento ancora le gambe. Sono ancora capace di essere intero, se mi tiri su. So ancora come mi chiamo, cosa posso dirti, come posso raccontarti quello che è accaduto. Raccoglimi, te ne prego. Sei sempre in bilico tra chiuderti a scorticarti nel tuo guscio e cercare l'anima che ti renderà una mano. La mano è qui se vuoi. Aiutami a risalire, se ti concentri sai come si fa.

Una volta eravamo in due, solo noi due. Eravamo una sola cosa forte il doppio perché eravamo sempre accanto. Eravamo pari e così opposti da essere la persona giusta al momento giusto nel momento di bisogno dell'altro. Oggi siamo pari, opposti, lontani, vicino, finalmente amici. E più che mai, i due fratelli che siamo da sempre.

Arriverà il tempo di riassumere la giornata. Di chiudere tutte le parentesi che ho delicatamente aperto. E anche le metafore. La fine comincia con un invito. Accomodati, circondami, usami. Qual è la prima cosa che vorrei imparare da me stessa? Sganciare i lucchetti e avere il coraggio di entrare. Sono in una casa che spesso chiamo nostra e quasi mai mia, anche se le due cose dovrebbero sommarsi. Gira quella fottuta chiave e condividi l'ultima stanza.

Girare una chiave per te è una sensazione di resa. Per te che vuol dire per me, visto che ormai confondo tutti i piani, tutti i bisogni e tutte le persone: per questo la prima è assente. Arrendersi e il primo tassello per costruire. Guardare le tue cose insieme ad altri e grazie allo sguardo di altri, come quando vedi le tue cose capitare non a te. Conservare, immagazzinare, impara. Togliti uno per uno gli anni fino al punto di partenza.

Quell'insopportabile di Alice avrebbe voluto le direzioni. La traiettoria del Bianconiglio indicata con precisione. Mocciosa irritante, schematica e noiosa. Se muovo il piede sinistro affonderò. Se aspetto la luna piena ci sarà più luce e non rischierò di cadere. Control freak rivoltante. Ora che vedo le frecce voglio solo buttarmici contro.

Mi congedo dai fantocci industriali con un fantasma che mi rammenta una bestia col cuore che anni fa fotografai alla Certosa di Pisa. Rosa senza speranza, sguardo laterale, sensazione dritta. Piu mi allontano dalla rappresentazione dell'essere umano, più l'umanità torna protagonista. Non ti guardo, sono in gabbia, sarei anche bello da vedere ma passo quasi sempre inosservato.

Anche tu.