Il mio primo vero trasloco è troppo lontano. Potrei dire che mi è stato raccontato, ma in verità non ho assolutamente memoria neanche di un racconto. Ricordo le prime foto della mia prima (seconda) casa successiva a un trasloco, perché ricordo brandelli di quella vita con la casa ancora in fase di cantiere, gli operai gentili, la terra gialla, la strada che ancora si vedeva perché il tufo non era ancora stato ammassato a far da recinzione, a nascondere gli sguardi. Che poi, all'epoca, veramente pochi, quella strada era poco nota, poco abitata, poco frequentata.
Il mio primo trasloco tecnico non conta, perché non era mio.
Il primo trasloco a cui possa affiancare l'aggettivo possessivo è stato per gli anni di università che non sono mai arrivati alla fine. No, forse nemmeno questo può essere considerato un vero trasloco. Riempimmo un macchina di cose mie e facemmo lo stesso due anni dopo, ma non era un cambio di vita: solo una necessità temporanea che si rivelò ancora più temporanea del previsto.
Il primo trasloco sinceramente mio è stato dodici anni fa. La casa non era ancora definitiva, ma la coppia di cui facevo parte lo sembrava. Voleva essere la negazione di uno scherzo, e la rivincita sulle decisioni troppo ponderate. Accettare il rischio, raccogliere la sfida, scommettere sul brillìo dei nostri quattro occhi, ci era sembrata la cosa più giusta da fare. Numero uno: da casa mia a una casa non nostra. Temporaneo perché condiviso, una specie di parentesi studentesca che mi ero negata e che poteva essere considerata perfino divertente, a trent'anni, per un breve lasso di tempo. Ma ci voleva una vera scelta di coppia. La città era cara, la provincia meno. La prima casa dove vivere in due era piccola, ma non piccolissima. Ci bastò per il tempo che ci bastò a conoscerci. Numero due: dalla casa condivisa alla casa della prima coppia.
Poi venne l'inatteso. Ormai avevo dato per scontato di adattarmi a una vita in un posto diverso da quello di origine, e mai avrei pensato a una tale opportunità. La possibilità di lavorare al sud si presentò, non per me, in un momento in cui il mio lavoro mi sembrava insopportabile. Ovviamente sbagliavo: ora non faccio altro che dire quanto fosse particolare quel lavoro per me, quanto fosse particolare, quanto ne fossi fiera. Ero in mezzo a gente incapace di lavorare e in parte (scoprii poi) disonesta, ma era affascinante. Ma allora lo lasciai e cominciai ad accumulare pacchi nella piccola non piccolissima casa. Numero due e mezzo: da casa nostra alla futura casa nostra.
La casa piccola divenne piccolissima, e poi gigante. Quel trasloco non avvenne mai ma i pacchi non erano riciclabili dopo la separazione (che vidi arrivare, annunciare, ritardare e infine esplodere, lo stesso giorno del terremoto in Abruzzo: 8-4-8. Ho sempre amato maniacalmente i numeri). Non avvenne mai per me, ma in quanto disoccupata mi toccò il compito di riaprire tutti i pacchi e riselezionare gli oggetti dividendoli tra le due destinazioni diverse: casa sua, casa mia. Solo io potevo farlo, lui lavorava. Io mi ero licenziata... per cercare la nostra casa. Numero tre: di ritorno a casa. (2.5,3).
Inebetita, illusa dal carattere apparentemente, in principio, temporaneo di questa separazione, mi ricostruii una tana nella casa che avrei preferito chiamare della mia famiglia. Attesi a lungo un ripensamento, non per masochismo né per folle, amorosa cecità: semplicemente perché mi era stato annunciato come molto probabile. Non arrivarono né ripensamenti né telefonate. "Sto bene qua. Ah, ma certo, senza di te." Io avevo scelto di telefonare per scoprire la verità, io me ne sarei subita le conseguenze. La cornetta era metaforicamente ancora calda quando mi cercarono per un colloquio nella città che avevo appena lasciato. (Anche quello, non a causa di una mia diffusione irresponsabile di curriculum vitae, ma perché mi era stato prospettato come probabile un rientro alla base, invece di un trasferimento definitivo al sud. Altri tempi.) Con i pacchi ancora chiusi raccolsi materiale sufficiente per due borse e traslocai inizialmente in un appartamento condiviso (numero quattro: da casa a una nuova stanza), poi, un paio di mesi dopo, in una casa tutta per me, di proprietà del mio datore di lavoro (numero cinque, da una stanza alla mia prima casa). (4,5)
Molte cose influirono sulla scelta di lasciare quella città (per la seconda volta). Non tutte si possono raccontare. Molte possono ferire. Le ferite che ho lasciato in quella città sono ancora aperte, le persone che mi mancavano mi mancano ancora. Anche la casa successiva era solo mia, ma era di nuovo nella mia città. Avevo viaggiato, fatto trasferte di lavoro, sofferto e goduto. Ma ero stanca, e contemporaneamente avevo una strana energia, solo che preferivo spenderla per il lavoro piuttosto che per gli affetti. Nel senso che non volevo più distruggermi di fatica per voler bene. Numero sei: dalla mia prima casa alla mia seconda casa.
La mia seconda casa però duro poco, perché era una fregatura. Umida, malandata, anche se tanto grande, governata dai miei primi tre gatti e dominata dalla meravigliosa cucina che mi aveva costruito mio fratello e che per la prima volta mi faceva sentire davvero una presenza solo mia in una casa. Trovai una casa in una zona in collina, meno umida e più cara. Un po' prima del trasloco i gatti diventarono due, ma trovai un lavoro che mi fece pensare di poter essere davvero indipendente. Numero sette: sempre lì, un po' più in là. (6,7)
Il lavoro durò, ma non per sempre. In una china discendente fronteggiai la morte violenta del secondo gatto, il licenziamento e l'abbandono da parte di uno che, col senno di poi, non avrei nemmeno potuto chiamare un mio ragazzo, perché non si era mai voluto impegnare in una relazione seria. Con l'incubo di non riuscire più a trovare lavoro e di non sapere come pagare l'affitto, mi arresi. Tornai nella... casa di famiglia. Era la stessa, io no. Vivevo nella parte più alta, e mi sembrava di non essermi mai mossa. Numero otto: di nuovo in famiglia.
Per un attimo, a un certo punto, dopo giri a vuoto, pensai di potermi stabilire in un'altra città, con un altro uomo. Nessuna delle due cose funzionò. Attraversai tutta l'Italia con la mia macchina, prima a salire, poi, qualche mese dopo, a scendere. Numero nove e numero dieci: un altro mare. (8,9,10).
Se il lavoro non viene a te, muoviti per trovarlo. E così è stato. All'inizio del 2014 mi sono spostata nella città dove tutti lavoravano, o almeno così mi sembrava, e dove tante persone che conoscevano prima o poi si erano spostate. Il lavoro era temporaneo, ma bellissimo: in una libreria di un amico. Dopo poco si è aggiunto un secondo lavoro, per il quale dovevo spostarmi addirittura... a poche centinaia di metri dalla casa dove un amico mi stava ospitando. La casa era sfitta, da sistemare un po', ma completamente per me. Numero undici: nell'unica città dove si lavora.
Il secondo lavoro era però quello che mi sarebbe rimasto addosso. Insieme a tutto il resto. Potrei trovare un modo molto poetico per raccontare il trasloco successivo, ma la verità è che semplificando si rende meglio: per seguire l'uomo con cui volevo stare potevo solo traslocare. Numero dodici: da qui all'isola. (11,12)
La prima sistemazione sull'isola fu momentanea, per avere il tempo di sistemare tutte le tessere del puzzle. Avevo una stanza (come già mi era capitato), una terrazza, il mare. Poche cose mie, i piedi per spostarmi. Nel momento giusto feci un lungo viaggio via mare con la mia auto piena zeppa di cose, e arrivai appena in tempo per poter prendere un po' di fiato, nella nostra prima casa insieme. Numero tredici: dalla stanza a casa nostra. (13)
E poi vengono i traslochi di assestamento. La prima casa nostra era cambiata: avevano costruito un palazzo davanti al cortile interno, non ci sembrava valesse più la pena rimanerci. Volevamo un po' di spazio in più, magari anche un po' fuori città. Non la cercammo veramente a lungo, ma quando la trovammo ci spostammo. Numero quattordici: dalla prima casa nostra alla seconda. (14)
Purtroppo, man mano le cose si chiarirono. Quella che sulla carta era stata una fantastica opportunità si rivelò per quel che era: una casa molto grande, piena di difetti, con un proprietario oscuro che quasi da subito ci diede chiari segnali di volerci cacciare. Ci mettemmo due anni a trovare una casa adatta a quelle che erano diventate le nostre necessità. Dovremmo esserci riusciti, e questa dovrebbe essere l'ultima casa sull'isola. (Numero sedici: ora). (15)
Il conto può sembrare ingenuo, la meccanica grezza. Ma dietro i movimenti ci sono le fasi.